Diventata un’icona internazionale del design minimalista, minotticucine ha una storia lunga 70 anni. Un periodo scandito da molte tappe e da una forte evoluzione dal punto di vista progettuale.
Acquisito nel 2014 dal Gruppo Asso, il brand ha mantenuto una coerenza stilistica grazie ad Alberto Minotti che continua a esserne il direttore artistico. A lui chiediamo come è arrivato a dare forma a quella che ha definito “la filosofia del silenzio visivo”, mentre Monica Venturini, responsabile marketing del Gruppo, spiega obiettivi e strategie per il brand.
Alberto Minotti e il silenzio che parla al mondo
Quando hai disegnato la prima cucina? Quali sono stati i principi e le esigenze che ti ispirarono?
La mia esperienza come progettista inizia nel 1995, quando disegnai Sax. Per questa cucina e le successive devo ringraziare mia moglie Beatrice con la quale condividevo le scelte di design. Una cucina che sostanzialmente rappresentava una continuità rispetto ai modelli minotticucine dell’epoca, espressione di quel gusto moderno e contemporaneo in cui aveva sempre creduto mio padre Adriano, fondatore dell’azienda.
Quattro anni dopo, in collaborazione con Silvano Bonetti, nasce Atelier e inizia la vera svolta per l’azienda e per la mia storia di designer. Presentata per la prima volta nel 1999 al Super Studio di via Tortona con il nome programmatico di Minimum, che qualche anno dopo modificammo in Atelier, la nuova cucina esprimeva la mia visione formatasi sulla lezione del minimalismo. Una composizione tutta bianca, giocata sulla sottrazione di ogni elemento visibile che potesse disturbarne la purezza. Una analoga composizione fu prodotta nello showroom aziendale con un piano in pietra di Trani massello alto 10 cm. Fu una vera sfida produttiva, ma aprì la strada al successo della pietra in cucina. Pochi anni più tardi lanciammo con Gandhara l’uso della pietra in verticale per le ante delle basi. Una sfida ancora più complessa.
Quale incontro ha modificato la tua visione del design?
La lettura del libro “John Pawson. Works”, scritto da Deyan Sudjic, è stata una vera folgorazione.
In particolare, la cucina disegnata da Pawson per una ditta belga, mi ha aperto la mente sul significato profondo del minimalismo di cui Pawson era, ed è tutt’oggi, un grande maestro, a sua volta influenzato dal pensiero di Shiro Kuramata. La lettura del libro è stata ancora più determinate perché è stata il tramite per un successivo incontro che si sarebbe dimostrato un’altra pietra miliare dell’evoluzione di minotticucine. Mi riferisco a quello con Claudio Silvestrin, che proprio con Pawson aveva condiviso per un paio di anni lo studio e che aveva disegnato con lui la Neuendorf House di Maiorca. Un’opera miliare per l’architettura e il design minimalista.
Come e quando hai conosciuto Claudio Silvestrin?
Leggendo il libro su Pawson avevo notato tra le referenze delle sue opere un’azienda di marmi storica del veronese, la Zantedeschi Galli. Incuriosito andai a trovarli e furono loro a parlarmi di Claudio Silvestrin, che proprio in quel periodo aveva iniziato a progettare gli store Giorgio Armani di tutto il mondo. Stabilito il contatto, Silvestrin venne a trovarci alla presentazione della prima Atelier a Milano. Da allora è iniziato un dialogo che è stato una grande fonte di ispirazione per me e per minotticucine ma anche una collaborazione concreta da cui nacque Terra, ancora oggi uno dei progetti iconici del brand. Anche il logo dell’azienda, ridisegnato nel 2001, è stato frutto di quell’incontro. Per lo studio del logo ci affidammo al guru italiano del minimalismo AG Fronzoni, di cui Claudio Silvestrin era stato allievo, e questo progetto fu anche l’ultimo lavoro del grande maestro. Un passaggio cruciale che abbiamo voluto ricordare quest’anno a Milano, nello showroom della azienda, per celebrare i 70 anni.
Quali furono le prime reazioni alla grande svolta impressa alle soglie del nuovo millennio?
Una per tutti cito quella di mio padre Adriano che, come prima reazione, si interrogò sulla vendibilità delle nuove proposte. La risposta arrivò presto dal mercato e fu sorprendente, anche per mio padre. Già a partire dall’anno 2002 le nostre cucine venivano scelte per le case più esclusive di tutto il mondo. Cucine da esibire più che da usare, il cui rigore formale era esaltato dalle materie naturali scelte. Eravamo entrati nella fascia del lusso, complessa ed esaltante. Quando nel 2001 AG Fronzoni disegnò il nuovo logo (tre forme rettangolari asimmetriche, ndr), mio padre scherzando si augurò che fossero il simbolo dei veicoli pieni delle cucine Minotti trasportate nel mondo.
Con il passaggio del brand al Gruppo Asso, ti sei concentrato solo sullo sviluppo dei nuovi concept. In che direzione stai rivolgendo la tua ricerca?
In questi anni è stato portato avanti un grande lavoro di ricerca con i produttori di componenti che hanno permesso di tradurre l’esigenza di “silenzio visivo” senza nulla togliere alla funzionalità. Nelle nostre cucine tutto scompare grazie a meccanismi evoluti. Tutto è in ordine perfetto. Un’esigenza di nascondere che oggi è diventata un trend per tutti ma che dieci anni fa abbiamo sollecitato noi. Ancora oggi, grazie alla solidità e alla propensione di Asso ad investire in tecnologia, il dialogo con i fornitori ci porta a trovare soluzioni esclusive per permettere che tutto possa essere celato in forme sempre più pure. Un esempio? Il forno che scompare nel piano di Seta.
Parlando di materiali, da sempre hai prediletto quelli naturali. Qual è la ragione della tua scelta?
I materiali naturali non tradiscono mai, sono “timeless” perché esistono da sempre. Se la loro anima è senza tempo, cambiano le forme e i modi di lavorarli e per questo siamo costantemente alla ricerca di nuove soluzioni. Penso, ad esempio, al bronzo fuso della cucina di Silvestrin o al materiale utilizzato per Seta.
Quest’ultima caratterizzata da un sandwich di vetro al cui interno è stato posto un materiale, la seta naturale. E il gioco estetico del tessuto viene ripreso dal piano della cucina realizzato in moduli di pietra che scandiscono quelli delle basi. Ogni porzione di pietra è ruotata di novanta gradi rispetto alla precedente per creare un parallelismo progettuale con quello della trama e dell’ordito del tessuto. Per arrivare alla definizione di questa proposta abbiamo sperimentato a lungo con i nostri fornitori fino a trovare la soluzione giusta. Una ricerca estrema per il dettaglio che definisce il concetto di lusso e che è possibile solo in Italia. Abbiamo la fortuna di appartenere a una filiera di grande valore che ci è riconosciuta in tutto il mondo.
Come nasce il concetto di lusso legato al made in Italy?
Ovunque e da chiunque, siano rivenditori o clienti finali, è risaputo che il vero lusso nasce in Italia grazie alla bravura di tutte le nostre imprese, in particolar modo quelle che operano nella moda e nel design. Ringrazio anche i miei concorrenti che hanno contribuito a costruire l’altissima qualità del brand made in Italy. E sono ovviamente orgoglioso che minotticucine continui ad essere una delle espressioni più riconosciute del lusso italiano. Sono convinto che non dobbiamo smettere di credere nella cultura italiana, frutto di una grande storia.
Know-how in evoluzione raccontato da Monica Venturini
Con l’acquisizione del 2014 quali obiettivi vi eravate dati?
L’acquisizione nasceva da una opportunità e dalla volontà di recuperare un brand del territorio. Eravamo già entrati nel mondo cucina attraverso Maistri, con cui collaborava Alberto Minotti, e questo ha contribuito a rafforzare il nostro interesse per minotticucine.
Il primo obiettivo, del tutto raggiunto, è stato quello di ridare sicurezza sul brand e di mantenerne al tempo stesso la riconoscibilità e l’integrità. Appoggiarsi a uno “zoccolo duro” come quello offerto da Asso, ha garantito la solidità necessaria e ha contribuito al successo dell’operazione. Ad oggi siamo molto soddisfatti perché il brand sta crescendo sia come fatturato sia come prestigio.
Come avete raggiunto i vostri obiettivi?
Grazie al know-how di Asso abbiamo puntato innanzitutto sulla capacità tecnologica nella costruzione di un prodotto complesso. Contemporaneamente abbiamo organizzato il flusso del lavoro nel modo più preciso possibile con una squadra dedicata che garantisce un servizio di assistenza ogni giorno, 24 ore al giorno, visto che lavoriamo in tutto il mondo.
Il cliente pretende di essere rassicurato, di avere sempre risposte tempestive e il nostro è un customer service speciale come sono speciali i nostri clienti.
Gestire un brand che si pone al vertice della piramide vuol dire sapere parlare di lusso in tutto il mondo. Oggi quanto incide l’export? Qual è il paese che sta dando maggiori risultati?
L’export rappresenta l’80%. Il paese più importante, anche storicamente, è il Giappone, ma se dobbiamo pensare al rapporto tra tempi di apertura di uno store e risultati acquisiti vince Londra. In ogni caso, laddove abbiamo un nostro monomarca o iniziamo una relazione con un nuovo rivenditore il mercato cresce. Lo store di Seoul, ad esempio, ci sta dando molte soddisfazioni e recentemente, grazie a loro, abbiamo chiuso dei progetti molto importanti ed esclusivi nell’area asiatica. Per questo il nostro impegno è molto focalizzato sulle nuove aperture e a breve ce ne saranno sia negli Usa sia in un’altra area asiatica.
Qual è il ruolo dei vostri dealer?
I dealer sono i nostri satelliti nel mondo e tutti i nostri partner sono perfettamente allineati con la filosofia di minotticucine.
Lo scoglio per loro può essere il livello tecnico complesso delle nostre cucine, per questo dobbiamo essere sempre al loro fianco, per assisterli dalle fasi in cui iniziano i progetti fino alle fasi finali di montaggio e post-vendita.
Negli anni avete dovuto confrontarvi con una serie di imitazioni. Come le avete gestite?
La nostra è una lavorazione eccelsa in ogni dettaglio e come tale riconoscibile, per questo è facile individuare le imitazioni. Ciò detto, stiamo lavorando su un progetto che ci permetterà di fornire per ogni cucina un certificato di originalità e una numerazione progressiva, che la renderà identificabile per sempre.
Per un brand sartoriale come minotticucine ha un senso parlare di Industry 4.0?
Stiamo parlando di un brand super artigianale, pura espressione di personalizzazione estrema e quindi non ha senso applicare le regole dell’Industry 4.0 ma sicuramente la grande precisione dei nostri fornitori è anche frutto di processi produttivi evoluti.
Tecnologie che valorizzino in modo nuovo i materiali, ad esempio, o più “semplicemente” macchine per la lavorazione della pietra che garantiscono una realizzazione di estrema precisione.
Quali sono le sfide più importanti e impegnative per il prossimo futuro di minotticucine?
La nostra mission quotidiana è quella di portare il brand a un livello sempre più esclusivo. Questo vuol dire creare una barriera sempre più difficile per gli imitatori e continuare a crescere nel servizio. Sentiamo di aver fatto molto, e bene, ma non ci sentiamo mai arrivati perché gestire un brand di lusso è una sfida che non può avere fine, complessa ma piena di soddisfazioni.
Sfida che portiamo avanti giorno dopo giorno condividendo l’obiettivo comune con tutto lo staff che rappresenta la nostra forza aziendale.
In apertura, primo piano su un dettaglio di Atelier. Disegnata da Alberto Minotti, rimane una delle cucine di maggior successo di minotticucine