Intervista a Luciano Galimberti: l’irripetibile filiera del design italiano

Luciano Galimberti, presidente ADI, racconta la sua visione del design, dell’associazione che presiede e delle nuove generazioni.

È un fiume in piena, Luciano Galimberti, presidente di ADI - Associazione per il Design Industriale, dal 22 maggio scorso. Una piena benefica, in questi tempi magri di vision di respiro, che tradisce la passione che lo anima e una straordinaria fiducia nella forza del design. Una forza, oltre che estetica e industriale, anche etica. Il disegno del futuro, per Galimberti e nella visione di ADI, non può che passare da un progetto: delle cose, del mondo, delle imprese.

Qual è e soprattutto quale potrà essere il ruolo di ADI nella complessità dello scenario attuale, nella fase di trasformazione del rapporto tra design e imprese? 

Oggi l’ADI è chiamata a una grandissima trasformazione. E non solo, per cominciare dal concreto, dalla nuova sede milanese di 5000 mq che diventerà la Casa del Design, ma anche per sfide di altra e più complessa natura che riguardano proprio come affrontare questo momento. Non definiamolo di “crisi”. La crisi non c’è. Nel senso che non si uscirà da una fase – ormai è chiaro – per ritornare a modelli precedenti. Stiamo invece attraversano una transizione, importante e definitiva, attraverso la quale occorre operare un cambiamento profondissimo che ci riguarda tutti. Siamo in grado di affrontare questo passaggio epocale? Io dico di sì, e come ADI ci ho scommesso accettando la presidenza dell’Associazione. E il design deve essere uno dei motori del cambiamento.

Da dove partire? Dove collocare la leva per un rilancio di tutto il sistema industriale del design italiano?

Innanzitutto dalla consapevolezza che il modello del cosiddetto made in Italy è irripetibile e per molti versi incomprensibile al di fuori di chi lo realizza. Nel senso che sì, possono essere copiate le singole forme, ma non il “sistema”, né i “sistemi” di valore né le metodologie che caratterizzano la nostra progettazione e produzione di qualità. Quel sistema costituito dal tessuto di piccole e medie imprese che viene preso a modello anche all’estero, come dimostra anche una recente ricerca realizzata all’Università di  Ca’ Foscari da Stefano Micelli (economista, docente di Gestione delle imprese, autore del libro “Futuro Artigiano”, cui è stato conferito un riconoscimento straordinario proprio del Compasso d’Oro, ndr) che documenta, ad esempio, come in USA stiano studiando il nostro percorso.

Ma questo sistema peculiare del made in Italy, fatto di un tessuto di PMI eccellenti, di distretti che hanno fatto la nostra storia industriale, oggi non costituisce anche il nostro limite?

Proprio per questo oggi più che mai occorre fare squadra attorno al progetto, ma i fondamentali ci sono, li abbiamo già. Partendo dal cuore della progettazione. Le forme del design made in Italy hanno un minimo comune denominatore: cercano di dare felicità all’essere umano che li utilizza. Nelle altre culture questo concetto non esiste. Questo è qualcosa, lo ripeto, che ci rende unici. Ma è proprio questa peculiarità che occorre rendere visibile e spiegare. Per ogni prodotto va comunicato più forte e più chiaro. Bisogna fare il punto sul modello culturale e sulla strategia per comunicarlo al mondo con più forza e determinazione, insieme. Dobbiamo riscoprire - ma non in termini nostalgici, attenzione - il nostro patrimonio di design. Per questo, in occasione del semestre di presidenza italiano, c’è in mostra a Bruxelles una selezione storica del Compasso d’Oro: un oggetto per ogni decennio. Per raccontare un futuro del design italiano che è fatto di tecniche, di comunicazione, di poesia. È percepito come tale soprattutto all’estero, talvolta noi non riusciamo a coglierne le peculiarità e a valorizzarlo. Inoltre, c’è un modello produttivo tutto da rivedere, che riconsideri e rintracci i confini e gli intrecci tra industria e artigianato. Torniamo alla necessità di lavorare sul sistema, su tutta la filiera del design, e questo è uno dei compito che si prefigge ADI guardando al futuro. Da qui deve partire anche una nuova riflessione su come arrivare al mercato. E qui arriviamo alla necessità di fare squadra.

Da tempo si rincorrono appelli a fare squadra, “fare sistema”: cosa le fa pensare che è arrivato il tempo – e la capacità – di realizzare questo obiettivo?  

È vero, è un richiamo già fatto negli anni scorsi, ma oggi siamo nel cuore di quella transizione profonda di cui parlavo prima, e che non ammette alibi. E per la quale occorre anche avere due plus: più vision e più aggressività. Nel senso poetico che ci comunica la frase del Piccolo Principe di Saint Exupèry: “Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”.

E qual è la rotta verso cui si sta muovendo la nave di ADI? Expo 2015 costituisce una tappa di questo percorso?

Per l’Expo 2015 abbiamo diverse iniziative, che si sviluppano su due livelli: da una parte il tema del food design (progetto verticale), dall’altra un progetto orizzontale che propone dei percorsi nel sistema di fare design. Il primo livello riguarda proprio l’importante progetto del premio Compasso d’Oro Internazionale sul tema della sostenibilità. Questa prima edizione, in contemporanea con l’evento milanese, avrà come tema Design for Food and Nutrition ed è focalizzato proprio sulle capacità del design di migliorare e innovare prodotti e processi produttivi in ogni fase della filiera alimentare. Il premio comprende anche un'edizione internazionale della Targa Giovani, riservata ai giovani progettisti che si stanno formando nelle scuole di design, con un premio destinato a favorire la start-up del progetto.

L’ altro livello su cui ADI darà un importante contributo volto a valorizzare il design agli occhi dei visitatore internazionale di Expo riguarda l’accoglienza, con un palinsesto che offrirà dei percorsi guidati proprio nel nostro sistema del fare design. E ancora, con la Regione Lombardia abbiamo avviato il progetto “Design è”, all’interno del quale realizzeremo una Design Competition con l’apporto di FederlegnoArredo: 40 aziende con 40 giovani – seguiti  da altrettanti tutor che faranno da tramite culturale – lavoreranno sul tema “Dal tavolo alla tavola”.

Ma a proposito dei giovani voglio dire che tutta l’enfasi che in questi anni si è focalizzata sulle cosiddette archistar ha un po’ falsato la percezione del “lavoro” del designer, un po’ come è accaduto, ad esempio, con l’esplosione degli chef, alimentando aspettative falsate. Perché il design è prima di tutto mestiere, che ha l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita di tutti. Oggi designer e imprese devono avere la capacità di costruire un metodo e un sistema trasversale con capacità di sintesi e di narrativa. La progettazione sostenibile, ad esempio, deve essere tale a 360°, perché è anche una sostenibilità d’uso, significa progettare per gli anziani, i bambini, le minoranze. E d’altro canto, non si tratta tanto di fare “forme”, occorre tornare alla “forma” intesa proprio nel senso poetico del design italiano. Penso ai primi progetti, a Sottsass e Mendini… Oggi invece assistiamo a un appiattimento formale terrificante. Dobbiamo ritrovare il coraggio di osare. Ricordando che non esiste futuro senza sperimentazione quotidiana del futuro.