Una nuova geografia dell’abitare

Giorgio Di Tullio, filosofo e designer strategico, racconta la sua visione: una interpretazione variabile dell’abitare, del produrre, del progettare che cresce grazie alle relazioni virtuose fra persone, idee, territori

Con Giorgio Di Tullio designer del cambiamento (docente e ricercatore a livello internazionale il cui lavoro è stato riconosciuto con un Wallpaper Design Award, e tre menzioni d’onore Compasso d’Oro, relatore all'evento Visibile/Invisibile di Ambiente Cucina), parliamo di casa. Di come il contesto socio-economico attuale intervenga nel ridefinirne il concetto e la struttura stessa interagendo con una differente modalità di “fare impresa” e “fare design”. Il punto di partenza? Una nuova geografia dell’abitare e del produrre che deve puntare sul piccolo e medio (centro, azienda…). “Partiamo da una considerazione. La casa non è più quella del dopoguerra. Un tempo era il luogo della stabilità, dell’identità familiare. Oggi viviamo una fase profondamente diversa: demograficamente, socialmente e culturalmente. La famiglia tradizionale, con coppie giovani e figli, è sempre più rara. Ci stiamo muovendo verso un habitat flessibile, temporaneo, dove l’oggetto d’arredo perde anche la sua funzione di status symbol, diventando un mediatore relazionale”.

Di conseguenza, come sta cambiando anche il modo in cui si arreda e si vive lo spazio domestico?

L’arredo oggi è molto meno legato al concetto di possesso duraturo. I giovani preferiscono soluzioni versatili, persino vintage o second-hand. L’idea di investire in un grande pezzo di design per la vita non è più centrale. In un contesto di incertezza e di mobilità, si privilegiano esperienze immateriali. La casa spesso diventa rifugio temporaneo, ma anche spazio fluido, di transito. I baby boomer cercavano radicamento, proprietà, accumulo. Le nuove generazioni no: vivono più a lungo in casa con i genitori, oppure transitano tra affitti brevi, studentati, coliving. C’è una dilatazione dell’adolescenza e una difficoltà oggettiva a investire su spazi propri. La casa viene vissuta più come piattaforma che come nido: uno spazio che ospita fasi, non progetti definitivi. Ma questa instabilità impone anche un cambio culturale per i produttori.

La casa è sempre più vissuta come una piattaforma - Foto di Jakub Żerdzicki su Unsplash

Eppure in alcune situazioni si nota un ritorno alla casa come luogo di aggregazione. È così?

Sì, interpretata però soprattutto dai più giovani come una sorta di “terzo luogo”, come si apprezza l’aperitivo fuori casa così oggi si torna anche a cucinare tra amici, a vivere lo spazio domestico in modo collettivo. La cucina si apre al living, diventa un grande tavolo condiviso dove si gioca, si lavora, si mangia. È un nuovo focolare, ibrido tra tecnologia e socialità.

A proposito di tecnologia, che ruolo gioca nella casa contemporanea?

Centrale. Ne sono un esempio la cucina sempre più minimalista e automatizzata ma anche i sistemi di illuminazione a batteria che post-Covid hanno avuto un diffusione enorme e su cui si potrebbe ancora fare molta innovazione. Ma soprattutto la casa oggi è anche essa stessa un device, una piattaforma: ospita lavoro, intrattenimento, relazioni. Serve una casa connessa ma anche capace di autonomia (manutenzioni predittive, automazioni semplificate, gestioni auto-cognitive dell’energia), più semplice da adattare e modificare.

LA CUCINA NON È SOLO FORMA:
È TECNOLOGIA, ERGONOMIA,
CULTURA DELLA RELAZIONE

In che senso possiamo dire che la potenzialità per il settore sta proprio nel cambiamento della geografia dell’abitare?

Le grandi città sono sempre più inaccessibili. I costi elevati, la carenza di spazi vivibili e la scarsa qualità relazionale spingono verso un’altra direzione: quella delle città medie e dei “paesoni”. Non è un ritorno bucolico ai borghi, ma un’occasione per costruire uno sviluppo urbano più umano. Nelle piccole città dell’Italia di mezzo (in luoghi come Piacenza, Brindisi, Pesaro, Rimini …) stanno accadendo cose notevoli: recupero del patrimonio immobiliare, nuove imprese in rete, relazioni più forti, una nuova tipologia di sviluppo locale. Serve peròuna visione politica che accompagni questa tendenza, investendo in trasporti pubblici, presidi sanitari e servizi scolastici diffusi.

La tecnologia gioca un ruolo sempre più centrale nel nuovo concetto di casa - Foto di Josh Hemsley su Unsplash

E dal punto di vista del mercato immobiliare?

Oggi si ristruttura con attenzione più che costruire da zero, ma i costi sono alti. Molte case restano ferme, altre vengono riattivate grazie alla mobilità verso città medie, dove la qualità della vita è migliore. Gli spazi domestici come quelli commerciali vanno rifunzionalizzati.

Cosa cambia invece nel rapporto con il cibo e la cucina?

Si cucina meno, si conservano meno scorte, perché i servizi come i supermercati, sono ovunque e aperti a tutte le ore. Si cercano soluzioni pratiche, poco invasive. Cresce il consumo di cibi pronti anche se la qualità gastronomica resta alta nelle città medie, mentre nelle metropoli si tende a un’offerta più standardizzata e meno autentica. Questo influenza anche lo spazio domestico: meno contenitori, più tavoli, più esperienze condivise.

Si cucina meno, si conservano
meno scorte. Questo influenza anche lo spazio domestico: meno contenitori, più tavoli, più esperienze condivise

Cosa dovrebbe fare allora il mondo dell’arredo?

Smettere di pensare alla casa come contenitore fisso e iniziare a pensare agli spazi come esperienze. L’arredo deve essere semplice, riparabile, leggibile nei materiali. Deve tornare a parlare di artigianato anche industriale, di sostenibilità reale. E non credere che tutto accada a Milano. Il vero design nasce nei distretti, nei laboratori dei territori.

Ecco parliamo proprio del ruolo del design in questo contesto.

Il design deve smettere di essere solo forma e tornare a essere sistema. L’innovazione vera nasce nei distretti produttivi, nelle reti di piccole imprese che collaborano, che fanno partnership. Il designer non è solo chi firma un oggetto, ma colui che interpreta un bisogno collettivo e lavora a soluzioni durature, sostenibili, riparabili.

Il tavolo con tecnologia integrata The Sound of Love, una creazione firmata dallo chef Max Mariola per Eidos Group

E le imprese? Come devono ripensarsi?

Come reti, non come torri isolate. L’impresa del futuro è un progetto relazionale, che mette in connessione fornitori, territori, materiali, talenti. Ho conosciuto aziende che si pongono un tetto al fatturato e preferiscono creare spin-off per favorire l’occupazione e la crescita. Questo è design: costruire un valore culturale e sociale che poi genera anche valore economico.

Il cliente? Che ruolo ha in questo processo?

Centrale. Ma spesso dimenticato. Il cliente non è più solo un acquirente, è un interlocutore attivo, un progettista, un finanziatore. Vuole sapere cosa c’è dietro un prodotto: da dove vengono i materiali, chi lo ha fatto, se può ripararlo. Questo vale nel food, nella moda, e sempre più nell’arredo. È tempo di tornare a costruire fiducia, paradossalmente è ora di imparare a dare fiducia ai clienti e non solo a chiederne. Dare valore reale, non solo apparente. E comunicare, con trasparenza.