Ambiente Cucina Day 2008

Una giornata di studio –

Sono creatività ed eccellenza le leve strategiche e distintive del successo delle aziende italiane del mobile per cucina sul mercato globale

“Le aziende del mobile per cucina hanno fatto di creatività ed eccellenza due leve strategiche per il loro successo anche nei mercati globali, mercati in cui è in gioco il ruolo del made in Italy e la crescita delle imprese”.
Con questa considerazione Raffaella Razzano, direttore di Ambiente Cucina, ha dato l'avvio ai lavori del quarto incontro Ambiente Cucina Day che (ospitato nella sede de' Il Sole 24 Ore a Milano, a sancire l'appartenenza della testata al Gruppo Il Sole 24 Ore Business Media, specializzato nell'informazione B2B) ha riunito studiosi e protagonisti della produzione italiana del settore.

La giornata di studio ha proposto punti di vista e letture di scenario di ampio respiro, talvolta non necessariamente legate al settore di riferimento, ma con l'obiettivo di fornire spunti e provocazioni a chi invece vive in prima persona la realtà produttiva e distributiva della cucina. Per dare più spazio a questi stimoli, al termine delle relazioni introduttive si è svolta una tavola rotonda alla quale hanno partecipato rappresentanti dell'industria italiana come Roberto Gavazzi di Boffi, Gabriele Centazzo di Valcucine e Alberto Scavolini di Ernestomeda; dell'industria dell'elettrodomestico, come Graziano Lazzarotto di Electrolux; di esponenti del mondo del design e della comunicazione: Sergio Castiglia, designer e art director, e Marco Pareschi di Komma Comunicazione.

Nel saluto iniziale, Paolo Boffi, presidente di Assarredo - Federlegno Arredo, ha sottolineato che negli ultimi dieci anni, «i cucinieri italiani hanno conquistato la leadership detenuta tradizionalmente dai produttori tedeschi, facendo registrare all'export del settore stabili tassi di crescita a due cifre, nell'ultimo quinquennio. Il 2006 si è chiuso con un +14,7% e prevediamo di chiudere il 2007 intorno al +19%. La dinamicità e la forza del segmento cucine sta creando un nuovo gruppo in Assarredo: si tratta di Assocucine, una nuova voce che acquisirà sempre più importanza, anche all'interno di Cosmit. Ci auguriamo quindi di continuare ad accumulare successi».

Le competenze della filiera della cucina hanno senza dubbio innescato quel processo di eccellenza che tanto si lega, nell'ampio contesto del “genius loci” italiano, al concetto di creatività originale, distintivo del made in Italy e vantaggio competitivo di tante aziende. Ma per avere consapevolezza di
questo vantaggio, saperlo governare e renderlo duraturo nel tempo, le aziende devono prima di tutto individuare e riconoscere la forza della loro creatività.
 
Secondo Dino Ruta, professore di Organizzazione e Gestione delle Risorse Umane presso l'Università Bocconi e la SDA Bocconi School of Management, bisogna prima di tutto rifuggire dai luoghi comuni sulla creatività (che la vedono, ad esempio, appannaggio esclusivo di cervelli giovani, oppure puro frutto del genio, o di processi improvvisi e irripetibili): «Spesso la creatività consiste nel cambiamento di prospettiva: uno sguardo diverso su qualcosa di esistente, un nuovo impiego per un prodotto, un diverso modo di presentarlo; oppure la capacità di creare connessioni diverse tra concetti già noti. In altre parole, soprattutto dentro le aziende, bisogna prima di tutto saper riconoscere il processo creativo, per utilizzarlo al meglio e anche per imparare a maneggiarlo. E poiché la creatività è strettamente collegata alla qualità del capitale umano, significa che chi guida un'azienda deve riuscire a individuare le persone rilevanti: tracciare una specie di mappa per capire dove si trovano i creativi. Per fare della creatività un vantaggio competitivo, è importante agire coerentemente con ciò che si è identificato come tale, anche all'esterno: ci deve cioè essere univocità tra i valori interni all'azienda e quelli che le vengono riconosciuti all'esterno, dai clienti, in una specie di 'effetto specchio'».

Un'azienda detiene un vantaggio competitivo quando, per definizione, “crea sistematicamente profitti superiori alla media”. Il problema è che parecchie aziende 'pensano' di avere un vantaggio competitivo, ma non lo hanno. Oppure hanno un vantaggio competitivo, ma non sanno quale è (e spesso abbassano i prezzi); o ancora: sanno qualeè il loro vantaggio competitivo, ma non lo comunicano ai clienti; confondono “punti di forza” con vantaggio competitivo; o infine, si dimenticano di sostenere il vantaggio competitivo quando prendono decisioni strategiche o operative. La capacità di combinazione delle proprie risorse diventa fonte di vantaggio competitivo per un'azienda. Prendiamo come esempio alcuni brand del settore automobilistico. Per Ferrari, alcune delle risorse strategiche peculiari consistono nella capacità di costruire auto in modo artigianale, ma di elevate prestazioni, esteticamente uniche; per Fiat si tratta invece della capacità di costruire auto esteticamente apprezzabili, in linea con lo stile italiano, con motori affidabili e con un prezzo adeguato. Identificare, costruire e mantenere queste risorse strategiche è il vero lavoro del management: risorse che siano sia rare sia di valore possono produrre un vantaggio competitivo, ma se tali risorse sono anche non imitabili, non trasferibili e non sostituibili allo stesso tempo, esse possono produrre un vantaggio competitivo duraturo e sostenibile. Infine, una verità semplice ma da tenere sempre presente, è racchiusa nel motto di John Welch: “Se non hai un vantaggio competitivo, non competere” .

La competizione è una sfida ancor più avvincente sui mercati emergenti, ricchi di opportunità ma anche più complessi perché governati da logiche di consumo e valori culturali spesso distanti dai nostri punti di riferimento. Anche in questo caso, creatività può essere sinonimo di capacità di cambiare la modalità di approccio al mercato. Su nuovi approcci di marketing per affrontare i mercati emergenti verte l'intervento di Giuliano Noci, professore ordinario di Marketing al Politecnico di Milano, responsabile di progetti di internazionalizzazione e, tra i numerosi incarichi, anche componente del China Luxury Club Board (coordinato da Harvard Business Review China e Forbers Life China). «Il primo punto di partenza per guardare ai mercati emergenti è chiedersi cosa sono e quali caratteristiche hanno questi mercati; cosa bisogna fare per approcciarli e a cosa dobbiamo prestare particolare attenzione. Paesi come Cina, India e Russia racchiudono minacce ma anche grandi opportunità, come l'esplosione delle richieste dei nuovi ricchi e l'enorme valore che essi rivestono per diffondere l'italianità nel mondo, a livello sia di immagine sia di contenuti. Entro il 2015, la Cina diventerà probabilmente il secondo più grande mercato al mondo per i beni di consumo; in India, il Pil cresce ormai da tempo del 10% annuo e la “classe media” passerà dai 50 milioni di oggi a 583 milioni di persone nel 2025, secondo le stime dell' Economist.

È invece un dato di fatto che siano state approvate 339 “zone economiche speciali”, con 74 miliardi di dollari di investimenti. In Russia il Pil cresce più del 5% all'anno da diversi anni; si registra una crescita sensazionale dei nuovi ricchi e una fortissima attrazione per prodotti italiani (di lusso e non). Mercati interessanti, quindi, che però non sono esattamente come ce li aspettiamo: il consumatore cinese, ad esempio, ha una buona propensione ai brand occidentali ma non li conosce e quindi non può essere fedele; è di età media abbastanza elevata, piuttosto “ignorante” ma in cerca di prodotti di qualità; ha una scala di valori diversi dai nostri. Un esempio: la waiting list imposta dalla Ferrari per l'acquisto dei suoi modelli più esclusivi, in Cina può rappresentare uno svantaggio competitivo: il ricco cinese non vuole aspettare e si rivolge a un altro brand. L'India è invece una società giovane, ma con una elevata percentuale di analfabetismo; i gusti dei consumatori abbienti sono sofisticati ma il mercato è piuttosto chiuso, con grandi difficoltà nel retail: bisogna fare i conti con l'assenza di infrastrutture (sulle quali l'India investe solo il 4% del Pil) e le conseguenti difficoltà nella catena logistica. Si impongono quindi alcune riflessioni.
 
L'Italian Style è diventato un concetto molto più ampio di quello del semplice prodotto made in Italy e di maggior valore per le aziende che lo sappiano sfruttare. Le caratteristiche di artigianalità ed elevata qualità del prodotto italiano possono non bastare più, in chiave prospettica. La marca, più che la qualità intrinseca di prodotto, diventa elemento di rassicurazione e di coinvolgimento su scala globale; l'esperienza è uno degli elementi maggiormente valorizzati dal consumatore post-moderno. In Cina, per esempio, l'Italian Style è sinonimo di qualità e affidabilità, ma è percepito come irraggiungibile. Si apre quindi spazio per un affordable luxury (lusso a un prezzo sostenibile) e per i prodotti no-brand, da sfruttare piuttosto con le leve del Country of Origin (CoO) o del Country of Design (CoD) per diffondere i valori chiave del “vivere all'italiana”.

In altre parole, per affrontare questi mercati bisogna raccogliere informazioni approfondite e aprirsi a una logica che non veda il prodotto come unica componente del nostro business: il consumatore emergente cerca l'esperienza del lifestyle italiano e per fornirgliela bisogna lavorare su un portafoglio di prodotti, che potrà variare a seconda dei paesi. Il prodotto stesso dovrà adattarsi al mercato che si vuole raggiungere. Per quanto riguarda la distribuzione, più efficace sarà quella intensiva piuttosto che selettiva: su questi mercati meglio giocare di sistema; qui il “piccolo è bello” non può funzionare. Per questo bisogna uscire dall'assioma che vede il prodotto di qualità legato alla piccola scala: al Made in Italy si può affiancare il “Designed in Italy “ o il “Branded in Italy”.

Il tema della dimensione, declinato sulle imprese e sulla conseguente portata degli interventi in termini di produzione, distribuzione, comunicazione e finanza è stato ripreso subito dai rappresentanti delle aziende presenti all'ACUDay.
Insieme a un'altra sfida che il comparto cucina - almeno nella sua fascia più alta - sta fronteggiando: quella di coniugare la produzione industriale con la richiesta di un prodotto talmente personalizzato da risultare “sartoriale”.
«Chi, come me, rappresenta una multinazionale come Electrolux, non può che essere d'accordo sul concetto di 'grande è bello' - afferma Graziano Lazzarotto, direttore commerciale built-in di Electrolux Italia e vicepresidente ADI. - Tuttavia, nei rapporti con i nostri partner italiani dobbiamo cercare di guardare le cose anche dal loro punto di vista. Si assiste, a livello mondiale, a un processo di concentrazione che crea gruppi di grandissime dimensioni.
Ma esiste anche un'altra tendenza, legata alla veicolazione dell'eccellenza, che si colloca in quella che definirei una “nicchia globale dell'eccellenza”: prodotti e brand che i consumatori stessi sono disposti ad andare a ricercare. Teniamo presente che la cucina, prodotto complesso e dalla vita media di 25 anni, è fatto da più componenti ed è sempre da personalizzare, in base all'ambiente della casa in cui si inserisce. Per questo, soprattutto sui mercati emergenti, la promozione deve essere pensata in termini di brand, e non di prodotto; e ancora di più: in termini di sistema, attraverso una cultura del progetto che sappia aprirsi a valori e modi di vivere diversi, e che sappia dialogare con il resto del mondo. Una sfida che la Fondazione ADI, che presiedo, sta raccogliendo. Il Made in Italy non è fatto di sola creatività: bisogna porsi il problema di come valorizzare e vendere questa nostra capacità di produrre capolavori».

Secondo Roberto Gavazzi, amministratore delegato di Boffi, «le aziende di cucine italiane stanno sfruttando troppo poco il loro vantaggio competitivo. Esportano poco più del 20% della loro produzione, mentre il resto del settore arredo si attesta intorno al 50%. Lo spazio quindi ci sarebbe, ma le piccole dimensioni non facilitano il compito: bisogna attrezzarsi per crescere. Boffi lo sta facendo con azioni di bundling, unendo cucina e bagno. La nostra politica prevede all'estero una distribuzione, con altre aziende, in punti vendita dedicati alla casa; ma guardiamo anche al contract. Non credo però che la dimensione sia l'unico problema: la cucina è un prodotto complesso e la complessità si scarica sui costi. Perciò si tratta di riuscire ad assorbire i costi: le macchine e la tecnologia ci aiuta. no, consentendoci la flessibilità di fare anche piccoli numeri. L'alto di gamma si orienta al prodotto confezionato “su misura”, ma non può essere solo quello: bisogna tenere un piede ben saldo nella produzione industriale di fascia alta».

Per Alberto Scavolini, direttore generale Ernestomeda, «forse si pone troppa enfasi sull'antitesi tra la cosiddetta sartorialità su misura e il prodotto industriale. Bisogna riequilibrare i termini, considerando anche il fatto che in ogni cucina, comunque, circa il 30% si “costruisce” durante la vendita, sulle esigenze del cliente. Per questo il vero nodo è il processo informativo, che deve funzionare in ogni sua fase, dal punto vendita alla produzione. In generale, direi che come azienda siamo più votati ai grandi numeri che alla nicchia del su misura. Sull'estero - e sui nuovi mercati in particolare - penso che il problema maggiore sia effettivamente quello della massa critica dell'azienda. Dal canto nostro cerchiamo di essere presenti e di diversificare i canali distributivi, dal contract ai negozi diretti.

Diversa l'analisi di Gabriele Centazzo, designer e amministratore delegato Valcucine, che si domanda se sia più opportuno inseguire i grandi numeri o tenere vivo un ideale, che incarna l'identità dell'azienda.
«Abbiamo fatto dell'ecologia, del rispetto ambientale e della credibilità i nostri valori identificativi: vogliamo restarvi fedeli in una realtà che conosciamo, e in un mercato che riconosca la nostra coerenza. Non ci interessa competere su aspetti che non appartengono alla nostra cultura aziendale e su cui invece altri hanno maggiori competenze. Abbiamo la presunzione di volere inseguire la nostra visione, la nostra utopia. Credo che l'eccellenza e la creatività del Made in Italy consista anche in questo: saper tenere vive e vitali le proprie unicità». Per Marco Pareschi, presidente di Komma Comunicazione, «la creatività italiana del settore cucina potrebbe impegnarsi per passare a una dimensione più ampia, guardando al mercato del benessere più che a quello del lusso. La sfida consiste nel mantenere eccellenza nella serialità: una sfida che tutta la filiera dovrebbe accettare, a partire dal design. I numeri crescerebbero e vi sarebbero più risorse anche per la comunicazione. Se è vero che la creatività italiana va anche comunicata sui nuovi mercati, bisogna infatti considerare che attualmente i budget delle aziende di cucine sono del tutto inadeguati. La comunicazione potrebbe diventare un elemento di successo se, di nuovo, vi fossero le dimensioni sufficienti».
Una strada potrebbe essere quella di una comunicazione univoca, sullo stile italiano della cucina, nell'ottica di far conoscere il nostro lifestyle ed educare i nuovi consumatori?
«Sarebbe un bel messaggio, da costruire anche con eventi che permettano di comunicare la cucina nel suo valore, legato all'edonismo del cibo, al piacere del bello in tavola come nell'abito».

La riflessione di un designer e art director come Sergio Castiglia (CastigliaAssociati) ritorna sul tema della creatività e del suo rapporto con la produzione: «La cucina resta un prodotto complesso, dalla progettazione alla vendita. Eppure nella produzione italiana c'è sempre la capacità di infondere
nuovo spirito, con novità e soluzioni diverse, al prodotto di sempre: una creatività che produce emozione. Nella progettazione, l'antitesi tra sartorialità e serialità si ricompone nella capacità di trasferire gli elementi caratterizzanti di un modello anche nelle parti da realizzare su misura. Il rapporto tra la creatività del design e la committenza, soprattutto nella cucina, si forgia attraverso la conoscenza e la valorizzazione dei punti di forza dell'azienda e riesce a trasferire qualità sul brand. Soprattutto nel caso di design corporate, il designer
deve accompagnare il prodotto in tutte le sue tappe: dalla campionatura all'installazione presso i rivenditori, fino alle case dei clienti. E l'azienda deve capire la crucialità di questo ruolo».